Scrittura


Parsifal

 Parsifal. Introduzione.


Ho studiato per undici anni il mito e le storie intorno al Graal e a Parsifal, le loro interpretazioni, le suggestioni che nel tempo si sono tramandate fino a noi; e per undici anni ho inseguito la volontà di scrivere un testo di poesia che collegasse il tutto al problema della strumentalizzazione politica del mito, di ciò che può accadere quando qualcuno prova a resuscitare un mito per collocare le proprie azioni, storiche, nella sua dimensione extra-storica e, di conseguenza, destituirsi da ogni responsabilità (perché il mito è fatto di una sostanza che “riposa in sé stessa” e rivolgersi ad esso è un “bere alla sorgente”, come sosteneva il mitografo ottocentesco Johann Jakob Bachofen; ancor di più, come preciserà in seguito lo storico delle religioni Mircea Eliade, perché esso è un “esempio (...) un precedente per i modi del reale in generale”). Parsifal, chiamato a comprendere, attraverso la consapevolezza della colpa personale, il valore della compassione per le colpe altrui, e ad assumersi l’arduo compito di attivare simultaneamente la redenzione individuale e quella collettiva, mi è subito sembrato un personaggio ideale per i miei scopi: dalle fonti medievali che lo interessano emerge un eroe assai credibile, un po’ a metà tra l’ascetico Galaad (colui che trova il Graal) e il sensuale Lancillotto (al contrario, quasi un emblema del fallimento cavalleresco: vedere il bellissimo film di Robert Bresson Lancelot du Lac, 1974); un uomo con le sue contraddizioni, che può arrivare a migliorare solo attraversando il dolore e imparando a controllare la propria impazienza, accettando gli insegnamenti del tempo e l’ineffabile sfuggire dei più nobili orizzonti. “Tutti noi siamo Parsifal, l’adolescente che commette una serie di sciocchezze delle quali si renderà poi conto”, ha scritto qualcuno : quello di Parsifal è insomma un mito che tenta di parlare anche a noi, disincantati uomini e donne moderni, col suo linguaggio simbolico. Poi, a un certo momento, è arrivato Richard Wagner, che ispirandosi prevalentemente al ponderoso poema del minnesanger franco-bavarese Wolfram Von Eschenbach, e pur tuttavia con un certo “uso onnivoro” delle fonti (Lucy Beckett), lo ha rivoltato come un calzino per adeguarlo ai suoi nodi tematici: nel “dramma mistico” del compositore tedesco Parsifal diventa protagonista di un percorso di redenzione che sintetizza (mirabilmente): lo sfondo pagano dei riti di fertilità dai quali derivano i topoi della “Terra Desolata” e del “Re Pescatore” (che quarant’anni più tardi forniranno lo spunto essenziale al capolavoro poetico di T.S. Eliot); la dimensione cristiana del Graal come strumento di salvezza dal peccato e di illuminazione del proprio anelito di redenzione (ciò che fece tanto arrabbiare Nietzsche, il quale vide il suo amato musicista abdicare dai miti germanici per “inginocchiarsi” davanti alla Croce; ed esaltò invece qualcun altro, al punto da scorgere nel Parsifal l’atto di “redenzione del Redentore”, di liberazione del “Cristo ariano” dall’eredità giudaica ); la teoria “schopenhaueriana-buddista della rinuncia al desiderio e della redenzione attraverso la compassione”.
Su tutto questo ho già scritto parecchio in passato, e non ho intenzione qui di ripetermi: tuttavia non mancherò di ribadire che la mia idea-guida è stata, ed è rimasta, quella di un Parsifal che si rende conto, all’ennesima “chiamata”, di essere appunto un mito-fisarmonica, evocato dagli uomini non a soccorso di eventuali “eccessi di consapevolezza storica” (Nietzsche, Eliade), ma in malafede, per scartare gravi responsabilità storiche: il caso del Nazismo, che il Graal l’ha anche materialmente cercato e che - secondo, pare, pensieri dello stesso Hitler - era un fatto politico del tutto occasionale e transitorio, necessario per costringere un’umanità imbelle e decaduta ad attraversare volente o nolente la “cerniera dei tempi”, resta emblematico; ma non ne ho fatto, nei precedenti tentativi di scrittura come in questo, un protagonista. Direi che il ponte idealmente gettato tra i due versanti delle mie letture in materia - le fonti letterarie e critiche da una parte, quelle storiche e antropologiche dall’altra - mi è egregiamente servito per muovermi con comodità tra le due sponde e non perdere di vista l’una mentre mi trovavo su quella opposta.
Che un autore spieghi un testo poetico non è una prassi comune, e forse nemmeno corretta: però su quello che, composto in appena cinque giorni è di fatto finalmente “il Parsifal”, qualcosa mi sento di dirla; almeno sull’improvvisa virata stilistica, che è anche se non soprattutto etica, della scrittura. Non so cosa, ma qualcosa mi ha spinto a tentare, in questo terzo esperimento dopo quelli incompiuti del 1993 e del 2001, la strada dell’ironia: una strada che ho sempre battuto poco e con pochi risultati. In cosa consiste l’ironia di Parsifal? Nel fatto che tutti i testi sono spezzati in due da cesure che interrompono il flusso quasi sempre lirico e portano il lettore su altri registri espressivi: queste cesure sono affidate a dei “Welcome” che trasformano la Terra Desolata in un parco divertimenti a tema e il percorso del lettore in un itinerario turistico tra quelle che in altri tempi qualcuno poteva ancora chiamare “Un mucchio di immagini frante, dove il sole batte” e che ora sono soltanto frammenti di memoria a cui un’umanità senza esperienza si aggrappa per orientarsi nella sua disorientante mancanza di senso del mistero . E non per caso questi frammenti riportano quasi tutti ai prodotti della cultura di massa (divi del cinema, prime teatrali mondane, canzoni, romanzi, maghi televisivi): dal momento che oggi la parola “mito”, assolutamente alienata dal suo significato storico e filosofico, viene spesa con disarmante disinvoltura proprio per cantanti, attori, calciatori, format Tv, e via dicendo.
Così, se il tema di partenza non è stato dimenticato, esso è però illuminato da una diversa prospettiva: Parsifal sì, incarna il mito che si sottrae alla vergogna della strumentalizzazione, ma sembra farlo più che altro per una questione di dignità personale, per riparare all’ingenuità dimostrata nel passato; giacché a dire il vero chi lo ha evocato, stavolta, non ha le idee molto chiare; il mito non è di casa nel nostro tempo, dove non potrebbe parlare il linguaggio del simbolo ma dovrebbe accontentarsi di quello dello slogan , dove dei percorsi iniziatici e sapienziali sono rimaste solo misere spoglie nei racconti per bambini (la citazione, nel brano La madre: flash back, da Vladimir Ja. Propp, lo studioso russo che ha appunto intravisto nella morfologia delle fiabe le tracce di antichi riti iniziatici), e dove di Parsifal si chiedono referenze come dovendo assumere un impiegato interinale.
Al contrario di quanto poteva sperimentare Benjamin (cfr. nota 7), oggi nessuno o quasi ammutolisce davanti alla catastrofe: anzi, come ho scritto in diverse occasioni, tutti, o quasi, davanti alla catastrofe parlano fin troppo, sbraitano, spargono come virus parole orecchiate da Tv, Internet e giornali senza prendersi la responsabilità di pensare, senza avere l’umiltà di tacere quando “le uniche parole ad avere il diritto di esistere sono le parole migliori del silenzio” (Juan Carlos Onetti). Tanto più appare strano, quindi, il silenzio di Parsifal, la sua mancanza di curiosità, il suo non domandare . La sua metamorfosi da incarnazione del mito in voce di persone reali ha a che fare con una riflessione (per la mia poesia non inedita) sul rapporto tra parola e silenzio: le persone reali delle quali ho cercato la voce sono Paul Celan, Primo Levi e Claude Eatherly. Il grande poeta ucraino di origine ebraica, internato tra il 1942 e il 1944 in un campo di concentramento nazista e scampatovi (ma morto suicida, per l’inestinguibile orrore, nel 1970), ha manifestato coi suoi versi una straordinaria tensione tra parola e silenzio, tra senso dell’indicibilità e lucido furore comunicativo, e un sobrio ma scrupoloso monito a che ciascun essere umano presti la massima attenzione alle “proprie date”, al come e quando gli si è rivelato “lo scandalo insostenibile della storia”. Il chimico-scrittore torinese, deportato ad Auschwitz nel 1944, quando, come egli scrive introducendo Se questo è un uomo, il bisogno di manodopera condusse il governo tedesco ad “allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli” , ha cercato di dare al dovere della testimonianza il senso di un contributo alla conoscenza di ciò che rischiava di sfuggire alla memoria collettiva a causa della sua incomprensibilità: ricordo individuale che diventa rimemorazione collettiva, unica possibile redenzione dal passato, unica possibile salvezza dei vinti dall’oblio (anche per Levi, a sua volta suicida nel 1987, il peso di questo dovere divenne insostenibile). Il “pilota di Hiroshima”, il giovane maggiore dell’aviazione statunitense che partecipò alla missione del 6 agosto 1945 contribuendo - per altro in modo relativamente inconsapevole - alla morte immediata di 71.000 persone, e che sconvolto non solo non accettò il ruolo di eroe ma fece di tutto prima per autopunirsi, poi per impegnarsi nella lotta a favore del disarmo atomico, è il fantasma della coscienza vigile: colui che davvero parla quando deve parlare, domanda quando deve domandare, e non solo nessuno l’ascolta ma viene messo a tacere; colui che la luce della bomba-Graal (una “cerniera dei tempi”, questa sì, e aperta non dai pazzi in nome della distruzione della storia, ma dai “savi” in nome della sua salvezza) ha veramente costretto a guardare dentro di sé.
Nella ricerca della voce di queste tre persone reali l’ironia se ne va: Parsifal redivivo nei panni di Celan, Levi ed Eatherly diventa il fulcro - anche se è spostato alla fine – dell’intero lavoro. La possibilità del mito si gioca nella possibilità della parola: questo il mito dovrebbe fare, restituire la parola a uomini e donne ai quali l’orrore della Storia l’ha sottratta (l’idea nietzschiana dell’umanità ammalata da un eccesso di consapevolezza storica, l’idea eliadiana di mito soccorritore, al di là di qualunque opportunistica interpretazione, dovrebbero secondo me significare questo); e la possibilità della parola si gioca in un rapporto consapevole con ciò che ne rappresenta l’origine e la fine, cioè il silenzio. Una questione alla quale, nel 1993, ho dedicato un’intera raccolta di poesie, Sangue del silenzio: perché appunto sangue del silenzio le parole devono essere, qualcosa che nasce da una violenza e che, con la violenza della morte, da dove è nata ritorna. Siccome sempre di più il pudore del silenzio non fa parte delle nostre virtù , bisogna tornare a cercarlo nella fluttuante giuntura tra la parola che cade dove ce n’è bisogno ed il silenzio che la parola soffoca quando di essa non c’è bisogno. Paul Celan fa appello alla propria voce, quella del’atemwende, della svolta del respiro, come ad una trappola mortale per le chiacchiere incapaci di “sfinire”, di togliersi dal flusso inarrestabile del dire a tutti i costi; Primo Levi fa appello alla propria voce, quella del testimone consapevole della lacunosità della sua parola, “a metà tra l’eufemismo e l’inaudito” , come tuttavia della sua improrogabile necessità; Claude Eatherly fa appello alla propria voce, quella di un uomo che non accetta il bando della coscienza impostogli da una civiltà sonnambula, come a un grembo capace di coltivare soltanto le parole “migliori del silenzio”, quelle necessari., Coraggio del silenzio e coraggio della parola: le due facce di una stessa medaglia sulle quali l’umano profilo di Parsifal ritorna a stagliarsi con i tratti della nobiltà e del mito.

Parsifal: una sinossi?


Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di allegare al testo, oltre all’Introduzione, questa specie di sinossi degli eventi lungo i quali si snoda la vicenda di Parsifal, piuttosto che qualche nota in calce; dato che il mio poemetto - non saprei come chiamarlo altrimenti: silloge non mi piace - non è narrativamente strutturato. Evidentemente non è obbligatorio che un potenziale lettore dei miei versi quelle vicende debba conoscerle: e c’è da dire che, come Wagner, anche io ho fatto un “uso onnivoro” delle fonti, rifacendomi a volte al testo di Chrétien de Troyes, a volte al libretto del musicista tedesco (e tramite questo indirettamente al poema di Wolfram), e per quanto riguarda i frammenti ironici, ad un repertorio di citazioni che vanno dalla battuta cult di John Wayne all’imbonimento di un fantasmagoreuta , dalle parole di una canzonetta alle formule magiche delle fiabe, dal Castello dei destini incrociati di Calvino al Magicat Mistery Tour dei Beatles, alla pubblicità di un astrologo televisivo. E, infine, alle parole di Paul Celan, dei suoi versi e del suo bellissimo discorso sulla “verità della poesia” , a quelle di Claude Eatherly, del suo carteggio col filosofo Günther Anders , a quelle di Primo Levi e della sconvolgente quanto misurata testimonianza di Se questo è un uomo. II dubbio è che avrei forse potuto più ledere la dignità del lettore, la sua volontà di capire, raccontando a latere la “vera storia” di Parsifal, che non irritarlo omettendola. Spero di aver fatto la scelta giusta.


Chi è Parsifal? Cos’è il Graal? Che presunzione, quella che ispira a riassumere in poche righe ciò che è giunto a noi per il tramite di numerose opere narrative e poetiche, e che ha costretto gli studiosi a defatiganti imprese? (uno dei più recenti saggi sul Graal, dello studioso Richard Barber - pubblicato in Italia da Piemme nel 2004 - 540 pagine). Tuttavia. Cominciamo a rispondere alla seconda domanda.
Nelle letterature e nell’iconografìa cavalleresche, il Graal è propriamente un oggetto, di varia foggia (calice, vaso, piatto, pietra), ma comunque sovrannaturale, dotato di vari poteri: di nutrimento materiale, di illuminazione spirituale, di protezione. Rappresenta sostanzialmente il Cristo morto per gli uomini, tra l’altro avendone secondo diverse tradizioni contenuto il sangue raccolto da Giuseppe d’Arimatea. La sua ricerca simboleggia un cammino trascendente verso la purificazione individuale, e la sua presenza in misteriosi riti coincide con la condizione invernale di una civiltà sterile: Parsifal è uno dei personaggi che meglio incarna una possibile coincidenza tra la redenzione individuale e quella collettiva.
Per quanto riguarda Parfisal, e tenendo conto delle due fonti alle quali io mi sono prevalentemente ispirato (Chrétien de Troyes e Richard Wagner), provo a distendere una traccia sulla quale sia possibile seguire il labile percorso narrativo del mio poemetto. Parsifal è un giovane ingenuo e rozzo, perché tale lo ha cresciuto la madre per impedire che egli seguisse il destino del padre e dei fratelli cavalieri, morti per “cause di servizio”. La sua formazione, a partire da un casuale (casuale?) incontro con alcuni cavalieri, segue due itinerari: il primo lo porta dalla Terra Desolata, nella quale appunto è cresciuto protetto e inviolato, verso il regno di Re Artù, per essere fatto cavaliere; il secondo lo conduce dal regno di Re Artù, peraltro ormai svuotato del prestigio e dei fasti della tradizione, verso il regno del Graal. È qui che egli incontra Anfortas, il re ferito simbolo di una condizione di peccato individuale che si ripercuote sull’intera umanità che lo circonda, ed è qui che gli è dato di realizzare la profezia che lo investe: quando assiste al rito del Graal, che Anfortas è costretto suo malgrado a perpetuare proprio in attesa di una profetizzata redenzione, dovrebbe domandare a cosa serva il Graal e quali siano le conseguenze della sua contemplazione per coloro ai quali essa viene concessa; una domanda che riporterebbe prosperità e fertilità al regno tutto, ma che Parsifal non riesce a porre, tecnicamente per la sua ingenuità e sprovvedutezza, in realtà perché grava su di lui la colpa di aver causatto la morte di dolore della madre quando l’ha abbandonata per cercare Artù. Da questo momento cominciano anni di peregrinazioni e avventure nei quali Parsifal perde quasi completamente il contatto con la fede, e che si concludono quando l’eroe si trova al cospetto di un gruppo di cavalieri penitenti il giorno del Venerdì Santo: in questo momento scatta la coincidenza tra pentimento personale, conoscenza e quindi capacità di quella pietà necessaria a compiere la profezia. Ed è in questo momento che il “mio” Parsifal sospende arbitrariamente la propria missione.

 

24-28 agosto 2004

 

 

La terra desolata.

Dove sono le parole, dov’è la grazia,
dove il sangue, dove il respiro
della terra, l’albero stanco
del dolore e la memoria?
Dov’è il sudario del tempo,
la mano che rianima la pietra
e doma il fuoco, l’acqua,
la fonte immemorabile?
Dove posa il sentiero
tra queste radici di carbone
senz’alito di serpi,
dove il cammino isterico
delle nostre anime pese?
Dove va la nostra voce
tra le pieghe arse del silenzio
senza riposo né consolazione?

Welcome to the waste land.
Aprite occhi e polmoni
allo sguardo illimitato e all’aria tersa
della ruota panoramica,
il cuore al brivido esatto
delle montagne russe,
tenete in serbo il grido
per il padiglione degli orrori:
avete la storia in tasca,
la scorta dei gettoni.

Amfortas, o della terra e la ferita.

Io non conosco pace né più mai conoscerò
il fuoco del sale e dell’aceto
dentro l’infetta indifferente piaga
del mio fianco.
Lì la mia pelle sanguina
ma non agita vita,
come un crepaccio arso nella terra
la mia ferita soffre l’onta
della tortura
senza il riscatto del dolore.
La colpa ha decretato la sentenza
ma coraggio e nobiltà
non battono moneta.

Welcome to the waste land.
Egli è l’infermo, abbiate pena,
consumate con lui la parca cena,
portate il Graal, ch’egli lo scopra,
elevate diafano il canto al vostro Re:
“No, non badate a me,
è solo è un graffio”.

Parsifal, colui che trafigge la valle.

Il mio nome è un filo di spada
temprato a una fonte,
un pasto nuziale di mantide,
un sonno di pipistrelli,
un’aquila in volo su prede.
Il mio nome è un carapace
di tartaruga, il flauto
di vecchi pastori che chiamano
i greggi, il sole alitato a novembre
che slamina appena attraverso
colonie di canne palustri.
Timone di albe e maree,
canto di popoli nomadi
di fuochi alle sere, .
di brina ai mattini.
Il mio nome è un granello
di polvere, la ruga
su un guscio di noce,
un’asma sulla brughiera
e un vento che schiocca
le foglie al frumento.

Welcome to the shady wood.
È lui il puro folle,
ancora non sa
né di sapere né di non sapere:
cuce le albe ai mattini
e i meriggi alle sere
con la punta del suo giavellotto
e fiotti di sangue di cervo. .
Angelo di desolazione,
è lui il refolo acerbo
del nostro destino.

Nella culla della parola (il dono del silenzio).

Non ringrazieremo mai abbastanza
quando col candore di una foglia,
la prima o l’ultima d’autunno,
il dono del silenzio
cadrà su noi:
quando riposo e pace
verranno a cingerci
col calore del sangue e della lacrima
e le labbra schiuderanno
come la prima notte del mondo.
Non desidereremo mai abbastanza
che il mistero ci tocchi
come una dolce ferita,
e la voce torni preghiera
una e per sempre
nella culla della parola.

La morte del cigno.

Il bianco cigno brado
cessa l’ultimo volo
sconnesso sopra il lago,
crolla sfinito al suolo.
L’abile cacciatore
in rotta l’ha trafitto,
il dardo dal suo arco
freddo in petto confitto.
Gurnemanz e i cavalieri
lamentano indignati
l’atto sconsiderato:
ma Parsifal ne è fiero.
“In volo quel che vola
sono avvezzo a colpire:
questa è la legge sola
che ho imparato a seguire”.

Welcome to the waste land:
alle sedici e trenta
balletto di ÄŒajkovskij
e sciroppo alla menta.


Parsifal, il Fool.

Figlio diletto della natura e di Dio:
sia lodato il tuo nome
e nel tuo nome l’idiota
che ha spezzato le frecce
e gli occhi stravolto
davanti al crimine ingenuo.
Benedette le labbra tue
che consigli materni hanno detto,
soltanto, e sciocchezze,
e serrate in mistica quiete
non hanno ora che dire.
Sia venerato il tuo nome
e il tuo volto scolpito nel latte
e il tuo inverno del cuore,
la disconoscenza del padre tuo
e la luce che avrai.

Welcome to the Grail hall.
Chiudi gli occhi, vedi pure
il tuo quadro: ma apri gli occhi
e ti insegnerò io a vedere
la verità dei fantasmi
nel gioco inquieto
della luce e dell’ombra.

La cerimonia del Graal.

“Ora stai bene attento e lasciami vedere:
se tu sei folle e puro, qual sapere
ti può mai esser destinato”, disse il vecchio.
Vedo entrare un corteo di cavalieri
che cantano di un’agape solenne,
e poi un’altra processione
accompagna la lettiga
di chi appare un malato
nobile sovrano.
“La mia ferita soffre l’onta
della tortura senza il riscatto
del dolore”: e la sua mano
scopre un calice e lo alza
misteriosamente illuminato.
Così benedice pane e vino
che i cavalieri cominciano a mangiare,
mentre il loro signore appartato
si lamenta. Termina la cena
e dopo un fervente abbraccio
tutti se ne vanno.
“Sai quel che hai tu veduto?”.

Welcome to the waste land.
Ecco, la musica è finita,
gli amici se ne vanno,
che inutile serata.
“Davvero, altro non sei
che un folle”: signori, prego,
largo al prossimo turno.

La madre: flash back.

“Figlio mio dolce e bello,
frutto selvaggio, ultimo mio sollievo:
questo è l’abbraccio
della mia pena, le labbra
che ti sfiora la fronte
ti bruceranno della mia febbre,
ma la mia voce senza parole
di addio e benedizione
rotta di pianto indegno
non ti sia cruccio:
ricorda di me per sempre
e già ora, quando a un tiro di pietra
il tuo furore ti avrà portato”.
E a un tiro di pietra dal ponte
io mi voltai, tra volute di polvere
e lacrime asciutte, e vidi la madre
prostrata al dolore: e non tornai.

Welcome to the “Porte Scee”.
Davanti a lui c’è una capanna
su zampe di gallina e ruota
continuamente su sé stessa.
“Capannuccia capannuccia,
mettiti colla parte dietro verso il bosco
e con la parte davanti verso me”.

La neve e tre gocce di sangue.

Parsifal, puro folle, il buon selvaggio,
l’impaziente, il prode cavaliere
investito il Vermiglio da Re Artù,
colui che magnanimo ha vinto
e risparmiato L’Oreuillose de la Land,
che fai tu muto davanti a tre gocce
di sangue, tre perle rosse
regalate da un’oca al nitore
della neve?
“Sono muto, muto di nostalgia,
muto per un rimpianto
che non so cosa sia.
Sì, Biancofiore, la bellezza, l’amore:
ma sono davanti a niente
come davanti a me,
nella crepa indolente
tra memoria ed oblio,
desiderio e abbandono:
Dio, forse è tuo questo dono?”

Welcome to the cross of the winds.
Rossa come il sangue,
bianca come la neve:
“Dal muro, specchietto, favella:
nel regno chi è la più bella?”.
Le rivelazioni della damigella.

Dunque, non chiedeste nulla?
Nobile Parsifal, nobile
e sventurato: se aveste,
se solo aveste domandato
al buon Re ferito avreste
restituito la salute, e con lui
all’intera terra desolata.
Se solo aveste sciolto
le vostre labbra a compassione
e consegnato la vostra ingenuità
al ragazzo che dovrebbe già
starvi alle spalle: Parsifal,
colui che trafigge la valle,
l’esausto Re Pescatore
con la vostra insipienza avete offeso.
Così come avete leso
l’animo già angosciato della madre
che, morta, avete abbandonato
sulla soglia del ponte levatoio.

Welcome to the crossed destinies castle.
Sulla tavola appena sparecchiata
colui che pareva il castellano
posò un ricco mazzo di carte:
erano i Tarocchi.

Nella culla della parola (la svolta del respiro).

Non desidereremo mai abbastanza
che la grazia ci colga
a soffocare in gola
la parola di troppo,
la svolta del respiro.
Non ringrazieremo mai abbastanza
l’urlo strozzato
che ci distolga dal sonno
per insegnarci a dormire
nella culla della parola.

Parsifal, l’ingenuo.

Sono Parsifal, colui che trafigge
la valle, Parsifal,
nome che tocca la bocca
come una goccia la roccia,
filo d’avena che sega gli alberi
e grido di foglia, tamburo di linfa,
vecchio elefante che va alla montagna:
sono Parsifal, puro folle, l’ingenuo
che rincorre e va incontro al suo nome.
Incontro al mio nome dove
odori di alghe si mischiano
a quelli di strami
e la terra sospira lamelle di nebbia,
scroscia la pioggia su campi di sorgo,
porta uno scherzo di vento
la fine dei fuochi di stoppie.
Incontro al mio nome
dove l’alba si annuncia negli echi
di caccia e i germani si alzano in volo
e con essi la nebbia
come fosse artigliata
svelando distese di bruni rami
di salicornie, dove ai ragni si spezzano
raggelate esili zampe.

Welcome to the waste land.
È lui, il puro folle,
ora sa di sapere
e di non sapere,
cuce le albe ai mattini
e i meriggi alle sere
col suo passo prudente
e il suo sguardo aquilino.
Angelo di desolazione,
è lui l’ansito caldo
del nostro destino.

Parsifal, lo sventurato.

“Dunque, non chiedeste nulla?”,
disse la fanciulla
con lo sconforto lumeggiato
negli occhi.
No, non chiesi nulla:
le mie labbra furono serrate
da un implacabile sgomento,
il mio cuore inchiodato dal gelo
come quello del cigno
lo fu dalla mia freccia.
Le parole dentro la bocca
come alito di carne guasta
non poterono uscire,
e una mano sul cuore
e una lacrima incerta
furono il solo avviso
che la tenebra non profanava
le porte dell’animo, almeno.

Welcome to the waste land.
Mi avvalgo della facoltà
di non rispondere,
anche di quella di
non domandare:
mi avvalgo della facoltà
di non partecipare.

Parsifal, l’errante.

Cinque anni sui passi
di pellegrini e di santi,
di briganti pentiti
e blasfemi mercanti:
compagna la pioggia ed il sole
compare, confidando nel buio
più che in mendaci stelle,
masticando la sabbia
e indovinando dell’acqua,
maldicendo i sentieri
e bollendo le ortiche.
Amiche non ho più avuto
né preghiere né chiese,
il peggiore dei Cavalieri
avrebbe onta di me
e dei miei casi strani, duri, crudeli.
La bisaccia ormai è vuota
di pane, di vino, di suole
come di provvidenza:
torno affamato nel ventre
come nella coscienza.

Welcome to the prodigal son.
È lui, il puro folle pentito,
ritorna, hai sentito?
Lui, che nessuno accoglie,
lui che toglie i peccati,
lui che sa la parola
unica e sola,
lui che sa la domanda.
“Sì, ma chi è che lo manda?”.

Il Venerdì Santo.

In che giorno siamo?
“Amico caro e bello, non sapete?
È il Venerdì adorato, .
siamo a onorar la Croce
e a chiedere perdono
perché abbiamo peccato”.
Io non so, non ricordo,
oppure ricordo e so:
so di mia madre morta
del mio ingrato saluto,
e di un Re che potendo
io non ho mai guarito.
Dovrei forse sapere
che non fui, là, crudele
per mia volontà:
che il mio nome era scritto
non per me, per la madre,
ma per l’umanità?
O che contro il mio stesso nome
sempre ho viaggiato
fino a quando i miei piedi fasciati
sapessero terra
desolata e infeconda?
Fino a toccare il dolore
per sentirlo bruciare nel petto
pura fiamma impassibile.
a non farsi afferrare?
Chiamato alla spuria innocenza
di dover domandare?

Welcome to Magical Mistery Tour.
Se il buio è nel tuo cuore
accendi la speranza
e cerca il sole.
Il Professor Belmondo
Astromago di rango
ti riporta la pace:
alle stelle dal fango.

Parsifai, tra le labbra e nel cuore.

Il sale dell’insipienza ho masticato due volte:
tu, madre, avrai perdonato morendo
lo sciagurato che alzava il passo
sul mondo; tra le labbra e nel cuore
quel passo mi portava
dentro al mondo
ed al suo dolore.
Tu, Re, non hai mai perdonato
l’inebetito garzone che quel passo
fermava al cospetto
della tua misteriosa ferita
e della non meno oscura tua colpa:
tra le labbra e nel cuore
quel sonno era il sonno
della pena e della ragione.
Il tempo sospeso, pure non si è fermato:
e il mio nome è stato chiamato
dal cuore di cerchi di cenere,
sedotto da occhi dischiusi
nel bel mezzo di pagine,
cullato nella voragine
della menzogna e dell’odio.

Welcome to the sleep-walker.
Tra le labbra e nel cuore
ho masticato e sofferto:
non chiamatemi più
anche se ho il conto aperto.

Nella culla della parola (un cuscino di spine).

Non ringrazieremo mai abbastanza
il sonno della ragione
che non genera mostri
quando è la ragione
ad essere il mostro.
Non desidereremo mai abbastanza
il silenzio che si torni a ferire,
la pace che ci insegni a dormire
su un cuscino di spine
nella culla della parola.

Luce coatta (per Paul Celan).

Non abbiate paura che la voce
mi si intarsi al respiro
e la parola mi sanguini in bocca:
vi dovrei maledire
se non foste capaci di sopportare
questo male sottile
che mi costa parlare.
Non abbiate paura di me,
della luce coatta
che mi illumina gli occhi
e mi annuvola i giorni:
vi dovrei maledire
se non foste capaci di dare ascolto
al borborigmo che esangue
mi straripa sul volto.
Non abbiate paura:
la paura è una serpe di vento
che si pasce
dove l’ultima vostra parola
non fa in tempo a sfinire:
il mio soffoco è la tagliola
che può farla morire.

Luce infranta (per Primo Levi).

Non abbiate paura che la voce,
che questa mia voce
affilata come il rasoio
divida la piuma più cara
del vostro cuscino,
vi lasci l’anima al gancio
senza più contrappeso:
vi dovrei maledire, vi ho anzi
già maledetto,
se non foste capaci di conservare
un cristallo di ghiaccio nel cuore
dal tepore del vostro letto.
Non abbiate paura:
la paura è una luce,
una luce infranta
che si ricompone ,
dove l’ultima vostra parola
non fa in tempo a attecchire:
la mia memoria è la terra
dove il seme di ogni dolore
è la gemma del dire.

Luce furiosa (per Claude Eatherly).

Non abbiate paura che la voce,
che questa mia voce
vi si aggrappi ai capelli:
io ho visto la croce
e il fuoco che l’ha consumata
fino all’ultimo chiodo
e so che gli occhi di un uomo
sono la sua coscienza.
Non abbiate paura:
la paura è una luce,
una luce furiosa
che si incendia
dove l’ultima vostra parola
non fa in tempo a venire:
il mio grido silente è la gola
dove può scaturire.

Cesare Iacono Isidoro
 

Il genio e l’ingegnere

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