Sono passati venti anni da quella giornata di anticipato scirocco del mese di maggio. Non c’era ancora la Rete a diffondere in tempo reale la notizia, ma la virgiliana fama dimostrò di essere altrettanto veloce seguendo le sue solite vie per noi imperscrutabili. Dalla strage di Capaci erano trascorse alcune decine di minuti e noi già sapevamo tutto per strada che Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani erano saltati in aria insieme a qualche centinaio di metri di autostrada, che il giudice e la moglie erano in fin di vita, che tutto era perduto.
Che cosa è la gratitudine? E’ ciò che resta quando tutto si è compiuto, il giorno che continua nell’anima quando il sole (e tutto) è tramontato, la sensazione di essere stati toccati dalla grazia di un amore altro e più altro, ciò che resta del nostro essere stati salvati, la linea d’ombra oltre la quale c’è solo il male che divora. La gratitudine è la felicità di potere dire grazie, il manifestarsi senza infingimenti della verità, la consegna del testimone della Legge, la conferma che esiste davvero quella energia d’amore capace di andare oltre se stessa fino al sacrificio. Della stessa radice della grazia, è il sentimento-fondamento della salvezza.
Fummo grati ai nuovi martiri in quell’anno fatale. Tutti. Tranne i fedelissimi del Demonio. Quella primavera di sangue versato rese impossibile fuggire, impose di restare. E di cercare un modo per potere continuare nel tempo l’impossibile resa all’oblio. Appeso dalla mie figlie sui balconi di casa, il grande lenzuolo bianco con una scritta semplice (Vogliamo sperare) che indicava il principio-speranza come l’unica forma del volere (e dovere) essere, rimase a lungo al sole, fino a quando giunse l’ inverno del nostro scontento e il dolore rinnovato della strage di via D’Amelio.
Cominciammo solo allora ad essere Capaci di reagire. Comprendemmo il senso generante del martirio, il mistero del seme che muore. Che deve essere continuato nel frutto, nei frutti che a ciascuno di noi è dato di raccogliere per altri, nuovi frutti da offrire alla nuove generazioni. Mi chiesi allora che cosa dovevo fare, quale fosse il mio nuovo compito. Abbandonai l’idea, già in avanzata fase di attuazione, di trasferirmi a Firenze alla cattedra del mio amico Sergio Givone. Non potevo più andare via perché l’amore rivelato è una prigione che non si può abbandonare, pena la rinuncia alla vita e a se stessi. Ma come continuare a ricordare? Il problema non riguardava la mia memoria, ma quella delle future generazione: per ciò, da docente di Poetica, decisi che il teatro era l’unica strada da intraprendere: teatro come testimonianza delle generazioni che si sarebbero susseguite nei venti anni che mi restavano ancora di insegnamento; teatro come rappresentazione, solo per una sera, di una memoria custodita attraverso il lavoro non di una compagnia occasionale, ma come parte integrante del progetto educativo della mia attività di docente. Sarebbero stati gli studenti gli attori di una annuale sacra rappresentazione che avrebbe messo in scena i fermenti e le passioni degli studenti non solo della Facoltà di Lettere e Filosofia, ma dell’intero Ateneo di Palermo. A conferma di questa intuizione organizzai, in collaborazione con il “Teatès” del compianto Michele Perriera, il 23 maggio del 1993, attori anche alcuni miei studenti, una serata in memoria intitolata: “Secondo cuore e secondo ragione”: poesia e musica, come sarebbe da allora fino ad oggi accaduto, insieme per onorare la Gratitudine.
2012. Venti anni dopo. Pensare alla gratitudine mi portava fisiologicamente a “Re Lear”. Coltivavo da anni questo progetto ma mi impauriva la sua complessità e il nostro intento non era mai stato e non era di fare teatro ma di “essere teatro”. Ma quest’anno è stato prodigo. Un centinaio di ragazzi iscritti al Laboratorio di Poetica. C’era da scegliere per potere assegnare le numerose parti dell’opera. E furono scelti studenti davvero bravi, che tra l’altro avevano frequentato o frequentavano scuole di teatro. Voci ben impostate, dizioni oltre la media degli studenti comuni. La traduzione del testo tagliò pochissimi momenti dell’originale, rimasero le storie parallele di Lear e Gloucester. Il Povero Tom aveva trovato in Marco Canzoneri (da tantissimi anni con me, l’unico sopravvissuto dell’antico gruppo) un interprete perfetto, in Carmelo Mulé un matto convincente, in Emanuele Bongiorno un Re Lear entusiasmante. Il resto di quella che si apprestava purtroppo ad essere una vera compagnia era davvero all’altezza del compito. La tragedia della ingratitudine si apprestava a dimostrare, nel suo contrario, quale gratitudine dovevamo a Giovanni Falcone e ai martiri di Capaci. Me niente accadde come doveva accadere. Nessuno si sentì parte di un gruppo ma primattore di una operazione utile solo al proprio interesse. Cominciarono poco a poco le invidie sottili, la presunzione trovò un suo naturale alveo, l’inimicizia divenne il leit-motiv di ogni incontro. Non fu possibile, fino ai primi giorni di maggio, fare una prova tutti insieme. Le mie minacce di scioglimento del gruppo non furono prese mai sul serio fino a quando sciolsi, a due tre settimane dal 23 maggio, quella che era diventata, mio malgrado, una compagnia teatrale disarmante davvero per i ridicoli giochi interni che si erano intrecciati in quei mesi. In pochi giorni cambiai progetto. Raccolsi accanto a me gli studenti che mi erano più cari assegnando a ciascuno un testo che riassumeva il senso stesso del sacrificio: a Luciana Priolo, splendida Savitri ne “I Difensori” , la recitazione dell’Incontro tra Ettore e Andromaca; a Mariolina Licari il Canto della Resurrezione tratto da “L’Opera. Il Figlio, il Messia, il Redentore” che da poco avevo concluso nella prima incompleta stesura; a Piero Canale la descrizione della morte di Socrate come leggiamo nel “Fedone”; a Palmira Salinas, coreuta dell’ “Edipo re” del 2005 l’addio di “Alcesti”; a Daiana Floria, mia prediletta dal 2002, l’unica che mi era rimasta sempre accanto sin dall’inizio della esperienza del Laboratorio di Poetica, l’addio alla città dall’ “Antigone”. Insieme ai testi Fulvia Lo Cicero e Alessia Acquaviva resero perfetta la testimonianza con le loro voci struggenti cantando, in memoria dei Difensori, “Sposa son disprezzata” di A. Vivaldi; in memoria dei Martiri il “Qui tollis” dalla “Petite messe solennelle” di G. Rossini; in memoria dei Testimoni l’aria “Regnava nel silenzio” dalla Lucia di Lammermoor di G. Donizetti; in memoria delle Anime sacrificali il “Duetto dei fiori” dalla Lakmè di L. Delibes; in memoria dei Fratelli l’aria “Ah, non credea mirarti” da La sonnambula di V. Bellini. L’equilibrio dei testi, lo splendore delle voci, il cuore messo in ogni parola e in ogni canto resero plasticamente visibile la Gratitudine. E grato sarò sempre a questi ragazzi, a Claudia Costanzo eccellente pianista, a ciascuno dei miei ragazzi cui devo la più bella serata tra le tante dei tanti anni passati insieme. Una pioggia di fiori coprì spettatori e attori quando il drappo rosso fu sciolto da una colonna del chiostro dello Steri rivelando il sorriso di Giovanni Falcone.
Dispiaciuto per non avere potuto partecipare alla rappresentazione, il Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano fece pervenire qualche giorno dopo al Rettore, prof. Roberto Lagalla, il suo apprezzamento per l’impegno culturale e civile degli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università di Palermo.