Scrittura


Voce nel deserto

Voce nel deserto
(Meditazioni sulla testa di San Giovanni Battista)


(gennaio - luglio 2012)
Voce nel deserto
(Meditazioni sulla testa di San Giovanni Battista)


Prologo.
La voce di Thomas Eliot


La tua voce, Thomas Eliot, che legge The Waste Land
non è una voce che grida nel deserto:
sale querula dal centro della vertebra
della tua pazienza, e plana sulle rovine in svendita
di quel tempo irriso ed irredento
in cui Phlebas il Fenicio annegato galleggiava
nella piscina di una villa in Sunset Boulevard;
non più dimentico del grido dei gabbiani
e del fondo gorgo del mare, non più spolpate
le ossa in mormorii dalla corrente,
non più chiamato al ciclo dell’eterno ritorno
ma intrappolato dai ‘clic’ di una moviola.
La tua voce, Thomas Eliot, è la voce fuori campo -
“Prego sbrigatevi, si chiude” -
per le stagioni dei saldi: orrore e Coca-Cola,
lillà dalla terra morta e zuppa in scatola,
neve smemorata e colpi di spugna Brillo,
e cento primavere di Vivaldi.
Sopra al caminetto del tuo studio
un’icona della Vergine Maria
sta accanto alla foto dell’amico Groucho Marx
ed entrambi piegano lo sguardo
verso un punto, dove si coagula la Grazia -
“O quest’uomo è morto,
o il mio orologio si è fermato” -
sguardo disilluso e pietrificato
di chi ha visto la Sibilla nel televisore,
il Graal ammaccato al mercato delle pulci:
la Nave uscire dal porto fra i saluti.


I.


Biblioteca Malatestiana di Cesena,
Sala Lignea: incastonate negli armadi
32 teste del Battista – anzi 31, l’ultima
è quella di un bimbo “martire innocente” –
inchiodano la vista a uno spettacolo
di fronte al quale il discorso eclissa.
Sono per lo più piccole tavole
che a vari gradi d’orrore e di bellezza
fermano il punto in cui inabissano
il limite del vedere ed il suo dono;
immagini che sfumano il confine
tra la favola e la storia, reliquie
di un luogo e un tempo dove indomo il verbo
esce dagli occhi come dalla bocca.
Qui volto superbo, librato nello spasimo
del furore interrotto, masca dell’asceta
che scagliò la parola come folgore;
là viso addormentato, còlto nel volgersi
alla morte come alla sola pace;
là occhi socchiusi, ancora, nel rapace sguardo
della febbre che ha bruciato fino in fine;
qui la lingua trafitta da uno spillo, come se
la testa tronca potesse un’ultimo presagio,
un dardo di luce sulle labbra schiuse
ad esalare l’anima in suffragio
“il giorno che mi ha squarciato il grido
che gridai”.

Superstiti alle parole dei profeti
tocca ai poeti di respirare e dire
le cose come stanno, tocca ai poeti
di parlare
quando parlare è sempre a un passo
dal morire.


II.


Tocca ai poeti dire la parola
che fa perdere la testa,
la parola ineluttabile
che si conficca nella pausa del respiro
per uscire come un urlo dove regna
la quiete consenziente, e ammutolire
dove imperano invece voci ruminate
e sputate come una cicca di tabacco.
Tocca ai poeti gridare in luoghi desolati
e sussurrare alle orecchie dei sordi,
tocca ai poeti redimere i peccati
degli idioti spifferanti che bivaccano
sulle radure del silenzio.
Ai poeti uccisi e bastonati,
relegati al carcere e al confino,
negletti ed insultati;
ai poeti premiati ed osannati,
tirati sopra i palchi come star,
chiacchierati al bar;
ai poeti pescati nelle reti,
intruppati nelle nasse,
con le casse dei loro libri
a ingombrare l’abbaino;
a tutti tocca dire, prima o dopo,
una parola degna di un destino.


III.


Giovanni era assai terribile alla vista,
ascetico ed estremo, un danzatore immobile
sulla crina del tempo
nobile e selvatico come e più del miele
di cui si nutriva.
Negre ferite gli occhi, come freghi di fuoco
su un arazzo prezioso, come laghi
offuscati da lune segrete;
bianca la pelle come gigli di campo,
ossia un muro di calce abitato
da scorpioni coi loro aghi letali;
vivi, i capelli, come un dolce racemo
ma anche un acre groviglio di serpi;
la bocca vermiglia quale una melagrana
tagliata in due da un coltello d’avorio,
o un erpice di corallo
rubato al vespro del mare.
Ma il suo corpo, però, era la voce,
una voce incarnata nel tuono
sopra alle lande, inenarrabile e arcana,
la voce di una musica strana e estasiata
fra il suono implacabile della Torah
e le acque fresche della Profezia:
voce intrepida, impervia, solitaria per via,
verbo offerto e tuttavia preservato,
sacro in effetti, e perciò profanato.


IV.


Il corpo di Giovanni era la voce:
una voce rapita e entusiasta
che gridava ai deserti,
una voce inflessibile e casta
che spargeva sconcerti
come piogge di ambrosia
e cedeva il passo al silenzio
quando l’anima ormai stremata
domandava soltanto il respiro
a cui una parola, una ancora,
potesse restare attaccata;
un fiore d’ira selvaggio
abbarbicato a un papiro.
Il corpo di Giovanni era la voce
che dall’antica cisterna-prigione
saliva come un rombo armonioso
e terrificante insieme: dal fondo
all’abisso,
galaverna sui cuori e sui labbri
di improbi e blasfemi,
rinfrancante puntura di oîstros
tra paura ed incanto
dentro gli occhi e sul volto
di genti in attesa:
una voce attecchita e sospesa
che ha dettato lo spazio
del suo proprio ascolto.


V.


Due vecchi trasportano la salma
come se attraversassero il silenzio
che la storia ha disceso sul mistero
gelandone il soffio: e tutto è un cristallo
di carità e disperazione, intero
il dramma è imprigionato
nei nudi piedi del mito che passa
e si oltrepassa.
Non uno sguardo fuoriesce dal cristallo
a interrogare il nostro,
o a consolarlo, non un labbro si schiude
ad espirare
un alito, una parola, un grido,
nella penombra immobile del chiostro.
Le membra di Giovanni custodite
nella pietas attonita dei vecchi
sono un segno superstite, eikóna;
ma già diventa eídolon la testa
nel piatto abbandonata, sullo sfondo,
sopra una balaustra,
lontana, catturata.


VI.


Così a Giovanni fu tolta la voce
e la sua testa cominciò a parlare,
a andare per il mondo raccontando
quello che il mondo anela d’ascoltare:
le parole dolci della profezia,
le parole amare della verità,
sciolte dalla religio e consegnate
a una distratta vanità.
Come quella di Orfeo sul fiume Ebro,
la fredda lingua del Battista
assolve nel canto dell’incanto
l’icastico furore di una vista:
la parola non battezza più le cose
né d’acqua né di fuoco,
cosa e parola s’incontrano nel logo(s);
nessuno teme più gli sguardi di Medusa ,
la poesia diventa quasi un gioco.


Epilogo.


I. Le voci dei poeti


Non gridano, le voci dei poeti, nel deserto:
salgono querule dal centro della vertebra
di una pazienza inquieta
e planano sulle rovine in vendita
di quel tempo arrogante ed irredento
in cui Phlebas il Fenicio annegato
fluttua nella piscina di una Spa.
Le voci dei poeti sono le voci in campo –
“Ognuno sarà famoso nel futuro
per almeno quindici minuti” -
al lavoro sulla propria morte:
dentro ai fonografi, alle radio, agli MP3
scolpiscono i propri simulacri,
il sangue del silenzio che furono
le parole affidate a un tempo incerto
è rappreso nel calco congelato
di una imago sulla quale è inferto
il fio di un’ambigua eternità.
Non gridano, le voci dei poeti, nel deserto:
presenziano a richiesta l’agorà.


II. Un poeta in ogni strada


“Ci vorrebbe un poeta in ogni strada”
ha scritto, un poeta, amico mio.
Ci vorrebbe, sì: ma a fare che, domando io?
A declamare simpatiche veline
intonando le laudi del signore di turno?
O viceversa a urlare slogan d’occasione
perché il sovrano sappia che non regna
su un popolo stolto e taciturno?
A fare il treppo, a imbonire i passanti
per raccontare loro filastrocche
e vendere i suoi fogli volanti?
A ballare come un orso ammaestrato,
a giocare ai bussolotti o alle tre carte,
a fare da cesso ai cani
e a monumento all’arte?
A ridere e ridere perché
messo ben bene in mostra
su un cavallo della giostra
sembri il pagliaccio ch’egli è?
O a fare espiazione,
le mani a velo sopra le pupille
per non guardarsi in viso nello specchio
ponendo a sé stesso la questione
se non essere, per caso, un imbecille?
Ci vorrebbe, un poeta in ogni strada:
ma per tagliare i fili dei telefoni,
infestare di virus i pc,
dirottare i plichi dai concorsi,
insegnare un mestiere agli editori;
ci vorrebbe, un poeta in ogni strada,
che non conoscesse recensori
e che non accettasse più rimborsi
per le spese, e che dicesse:
“Leggere, io non so cosa sia,
non so cosa volete se volete
che io legga per voi la poesia”.

Ci vorrebbe, un poeta in ogni strada,
se ogni strada passasse nel deserto
perché la sua voce, nel grido o nel sussurro,
potesse sempre lasciare un vuoto aperto.

Cesare Iacono Isidoro

 

 

 

 

 

 


 

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